Una raccolta firme per salvare la Polesia

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C’è un’ Amazzonia nell’Europa orientale e si chiama Polesia (80 mila kmq circa), un labirinto di torbiere, paludi e ruscelli, un paradiso di biodiversità che costituisce il polmone del nostro continente. Il movimento WeMove Europe, con Virginia a Madrid e Giulio a Roma, lancia l’allarme e invita a firmare una petizione on line, contro il progetto di costruzione di un enorme canale di navigazione tra il Mar Nero e il Mar Baltico, che minaccia l’area, con la distruzione dei fiumi e delle paludi, mettendo anche a rischio la sopravvivenza di specie già in pericolo come il bisonte, i lupi e le linci, che hanno bisogno di paradisi naturali.

A peggiorare il quadro sono i finanziamenti, che arriverebbero dai soldi delle tasse versate dai cittadini europei. “La Commissione europea sta stanziando le risorse per alcuni enormi progetti di opere per il trasporto transfrontaliero su acqua e questo progetto potrebbe essere uno di quelli”, scrive il movimento. Purtroppo, pochissime persone sanno dell’esistenza di questa Amazzonia europea e del rischio di vederla distrutta a spese nostre. Firmare la petizione potrebbe fermare il finanziamento di questo progetto. In Europa la natura è pronta a tornare, come abbiamo potuto vedere con i nostri occhi durante il periodo del lockdown: la natura e gli animali ne hanno tratto giovamento, quando le attività dell’Uomo (Sapiens?) si sono fermate.

Sempre più persone, risorse e lavoro vengono investiti nella lotta per riportare nel nostro continente la biodiversità e le specie naturali, ma il progetto di costruzione nel bel mezzo dell’Amazzonia europea minaccia la vita delle specie, la nostra capacità di invertire la rotta dell’emergenza climatica. Gli habitat risanati dove regna la biodiversità sono in grado di conservare più carbonio, eliminando naturalmente dall’atmosfera le emissioni nocive per il pianeta. La buona notizia è che l’accordo non è ancora stato scritto nero su bianco. La Commissione europea può ancora decidere se stanziare o no i nostri soldi per finanziare questo progetto disastroso. Ma la scadenza per la decisione si avvicina sempre di più “perciò dobbiamo far sentire le nostre voci prima che sia troppo tardi”.

Un’ampia schiera, grandi e piccole, di organizzazioni dell’Est supporta questa petizione. Tutte sono molto determinate, ma serve il supporto dell’Europa, quindi di ognuno di noi, per dimostrare ai politici che questo potenziale disastro preoccupa anche le persone che vivono lontano dalla Polesia. Preoccupa soprattutto la zona in cui si trova la Polesia, che si estende quasi esclusivamente entro i confini di Bielorussia e Ucraina, toccando in piccola parte anche la Polonia e la Russia occidentale, dove predomina la guerra in atto, che potrebbe oscurare tutto, nel silenzio generale.

Dall’estate del 1941 fino al 1944 la Bielorussia subì l’occupazione delle truppe del Terzo Reich. Dopo la Seconda Guerra Mondiale tutta la nazione divenne parte dell’URSS. Le aree paludose della Polesia corrispondono alle cosiddette paludi del fiume Pripjat’ o di Pinsk, una bella cittadina con palazzi in stile barocco che ne fanno uno dei centri più importanti della Polesia. Tra il 1960 e il 1980 vasti acquitrini furono trasformati in terreno coltivabile. Si ritiene che la bonifica abbia danneggiato l’ambiente lungo il corso del Pripjat’. La regione fu duramente colpita dal disastro di Černobyl, vaste aree furono inquinate da elementi radioattivi e sono tuttora considerate inadatte all’insediamento umano.

La Polesia è una conca a fondo piatto, una zona depressa, coperta da immense paludi e da grandi foreste prevalentemente aghifoglie a Nord, mentre a Sud sono frequenti anche le latifoglie. L’idrografia è incerta e complicata, i corsi d’acqua maggiori si snodano in continui meandri, si biforcano, si confondono con le paludi, con gli stagni, con i laghi. La parte occidentale costituiva fino al 1945 una provincia polacca (omonima) con capoluogo Brest-Litovsk, oggi è politicamente divisa fra la Bielorussia e l’Ucraina ed è un motivo di preoccupazione ulteriore. Allora ‘not in my name’, quello almeno lo possiamo fare, sperando che qualcuno, occupato in tutt’altre faccende, sia in ascolto.

La densità di popolazione della Polesia è bassissima, i pochi villaggi ancora abitati sono dispersi tra la natura selvaggia, non fanno, come si dice oggi, ‘massa critica’ e dobbiamo farlo noi, anche per loro. Livio Senigalliesi, giornalista e fotoreporter in zone di guerra, che va nelle scuole per parlare di pace, ha condotto un’indagine per conto del Goethe Institut nel 2018. “L’isolamento della popolazione ha mantenuto fino ai nostri giorni una assoluta originalità di usi e costumi. Anche la lingua usata dagli abitanti del luogo differisce dal bielorusso. Viene detta ‘tresianka’, un misto di russo, bielorusso, lituano che affonda le sue origini nella notte dei tempi. La folta vegetazione, rimasta inalterata nei secoli, è intervallata da paludi, stagni e rami secondari del Prypjat. Durante il periodo invernale, i corsi d’acqua si tramutano in ghiaccio e tutti i villaggi restano isolati. Con lo scioglimento delle nevi in primavera e con le piogge, il livello delle acque aumenta considerevolmente, causando spesso alluvioni e allagamenti”.

“Gli abitanti della regione, chiamati ‘Paleshuk’, hanno una grande capacità di resistenza e adattamento, conducendo una vita d’altri tempi, legati alla natura, al corso delle stagioni. Le tradizioni si tramandano oralmente per via matrilineare. Andare alla loro scoperta è stata una vera e propria avventura che mi ha portato alla conoscenza di persone straordinarie, ricche di umanità e di sentimenti non comuni. I loro ritmi di vita sono così diversi da quelli tipici della società moderna e industrializzata. Questa ricerca antropologica mi ha permesso di raccogliere rare testimonianze, che sono un bene da diffondere e valorizzare”.

E ora da tutelare, per quello che è nelle nostre possibilità.

Francesca Sammarco su IlPunto Quotidiano.it

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